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Resilienza e società liquida. Come sopravvivere

Ultimamente sentiamo con una certa frequenza parlare di “resilienza”, un termine che deriva dalla fisica e che, nel mondo scientifico, indica la capacità di un materiale di resistere ad un urtoe di reagire a questo con elasticità.

Il primo a coniare il significato psicologico di questo termine è stato Boris Cyrulnik, psichiatra francese contemporaneo, che, attraverso lo studio di bambini che avevano sofferto di gravi deprivazioni in tenera età, rintraccia quella capacità di resistenza e recupero che poi prenderà il nome di resilienza.

Questa ricerca, dai tratti anche autobiografici, essendo l’autore di origine ebraica e bambino durante la seconda guerra mondiale, ha avuto un eco importante trasformandosi in un termine mainstream e alla moda, così ampiamente impiegato.


Potremmo ad oggi definire la resilienza come una funzione psichica capace di modificarsi in base all’esperienza, al vissuto e allo sviluppo, e che può essere “allenata”.

Un’altra definizione, più articolata, la descrive come "capacità, non tanto di resistere alle deformazioni, quanto di capire come possano essere ripristinate le proprie condizioni" .

E’, quindi, una caratteristica cognitiva, che poco ha a che fare con l’analisi del modo inconscio di relazionarsi con l’esterno e che invece sta a valle di una ricerca di facoltà intellettive più o meno innate, e che possono essere allenate con pratiche e riflessioni.


E’ qui che, a mio avviso, risiede il pericolo di questa concettualizzazione: ad un’analisi critica è proprio quel concetto di resilienza ad emergere come prodotto di una società discutibilmente individualista, più che esserne la cura.

Pensiamo alle riflessioni formulate dal filosofo e sociologo polacco Zygmunt Bauman, deceduto nel 2017, in particolar modo nei suoi riferimenti a ciò che definisce società liquida.

Per l’autore la modernità è caratterizzata dalla crisi del concetto di comunità, che lascia spazio ad un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada, ma antagonista di ciascun altro, e che ha trasformato i suoi protagonisti da produttori a consumatori che inseguono un frenetico acquisto di beni, alla ricerca di visibilità, la cosa più importante.

La critica di Bauman è senza dubbio feroce, e credo possa aiutarci a spostare il nostro punto di vista e a cogliere la categoria resilienza come un prodotto della nostra epoca: una società che richiede individui efficaci ed efficienti ad ogni costo, sempre pronti a scartare l'ipotesi del pensiero, premiando invece le soddisfazioni facili, come quelle date dall'acquisto di frivolezze; individui di cui premiare la resistenza stoica, e cieca, ai fallimenti, invece della capacità di dotarli di senso ed arricchire di significato la propria vita. Viene scaricata la responsabilità sull’individuo, a cui non resta che percepirsi avulso dall’appartenenza ad un contesto che costruisca senso riguardo la sua esperienza di vita.

La resilienza è il sintomo di una cultura che in una qualche misura robotizza le persone, e le premia quando i loro antivirus funzionano in modo rapido e possibilmente indolore. La resilienza ci chiede di essere dei Rocky nella vita di tutti i giorni, che sanno prendere dolorosi pugni, restando in piedi, a danno della crescita interiore.

L’alternativa c’è, ed è quella molto meno di moda, di prendersi il proprio tempo per il dolore, nel pieno diritto di lasciarci soffrire, di scoprire i meandri più nascosti delle emozioni che si provano, di riconoscere la propria storia in quel malessere profondo, di mettere al centro, invece dell’efficienza, l’esperienza di se stessi.

 

Crediti e bibliografia:


Filmato: Intervista a Zygmunt Bauman, Wise Society, Video, Monica Onore e Gisella Bianchi


Foto: Charles Clyde Ebbets, Lunchtime atop a skyscraper, 1932


Teoria: Cyrulnik, B. Il dolore meraviglioso, Frassinelli, 2000 e Bauman, Z. Modernità liquida, La Terza, 2002


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