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Quando i nostri bambini chiedono oggetti

Nel mio lavoro mi confronto quotidianamente con bambini e spesso con le loro famiglie. Uno degli aspetti che più mi colpisce, nell'attività che svolgo in comunità per minori, è la continua richiesta di acquistare oggetti da parte dei più piccoli: non si tratta di interesse per l'oggetto in sé, ma della possibilità stessa di possedere.

Molto si è parlato - e molto si potrebbe ancora dire - riguardo il significato simbolico di alcuni oggetti che vengono elevati ad indicatori di appartenenze culturali e status economici dagli adolescenti: gli smartphone, un certo abbigliamento, certi mezzi di trasporto. Qui voglio parlare, però, di un aspetto che ha dei contorni diversi: mi riferisco al desiderio compulsivo dei bambini di comprare, disconnesso dalla natura dell’oggetto acquistato. Nella specificità del mio lavoro, questo impulso viene frequentemente spiegato riconducendolo alle carenze che i bambini hanno vissuto nella loro famiglia di origine, tuttavia mi sembra essere un fenomeno molto più diffuso che non può essere confinato nelle mura di una comunità.

Nel tentativo di recuperare i tasselli che mi pare lo compongano, trovo interessante pensare a quanto sia facile per i nostri bambini associare le emozioni della contentezza, della soddisfazione, della sorpresa, all'oggetto invece che al momento. Siamo una cultura che continuamente costruisce nessi causali tra emozioni ed oggetti, tra emozioni e fatti: possedere un'automobile di lusso rende orgogliosi, celebrare feste con infinito sfarzo rende eccitati, e alla fine arriviamo a pensare di poter sostituire l'assenza di una figura di accudimento importante con il regalo di un giocattolo o di un dolcetto.

Come scriveva Umberto Eco all’inizio degli anni ‘60, la società dei media e dell’informazione chiede al consumatore “di diventare un uomo con il frigorifero e un televisore da 21 pollici, e cioè gli si chiede di rimanere com'è, aggiungendo agli oggetti che possiede un frigorifero e un televisore”, e noi, in risposta, attribuiamo continuamente agli oggetti il valore di determinare il nostro stato d'animo, ed insegniamo ai nostri figli a fare altrettanto: così, fino a che non saranno cresciuti, sviluppando i propri interessi e assorbendo i valori della comunità di cui fanno parte, l'idea di possedere qualcosa, qualsiasi cosa, sarà di per sé entusiasmante.

L'insegnamento, da parte dei genitori, della differenza che c'è tra l'essere felici di un'esperienza fatta insieme e l'essere felici di un oggetto, salvaguarda i bambini dal diventare dipendenti dal possesso, dal legare il loro stato d'animo all'assenza o presenza di oggetti e li rende capaci di essere felici di esperienze, di momenti, di vicinanze.

La continua richiesta dell'oggetto, qualunque esso sia, va letta tenendo presente che si tratta del linguaggio che il bambino conosce e con cui cerca di esprimersi: in una cultura che sostituisce l'affettività con l'oggetto, il bambino che cerca attenzioni, coccole, momenti dedicati solo a lui chiederà peluche e macchinine. Il compito del genitore o dell'educatore è quello di ritradurre al bambino questo desiderio, proponendogli un'uscita insieme al parco invece di un acquisto, aiutandolo a concentrarsi sull'esperienza che si fa insieme, per esempio in un campeggio al mare, piuttosto che sulla quantità di cose che si potrebbero acquistare. Ricordiamoci, quasi come una massima dal valore assoluto, che le carenze che vivono i bambini sono - sempre - di natura affettiva, e che i bambini le esprimono con il linguaggio che vedono e sentono intorno a loro, e il nostro compito di adulti è quello di insegnare loro a chiedere solletico, abbracci, passeggiate invece di giocattoli, cellulari, cibo.

 

Crediti e bibliografia

Foto: Bambini, Pixabay

Teoria: U. Eco, Fenomenologia di Mike Bongiorno, Diario Minimo, 1963, Mondadori


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