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Boez - un'esperienza al limite

Dal 2 al 13 settembre Rai3 ha trasmesso un docufilm in dieci puntate (disponibile anche su Raiplay) che racconta l'esperienza di cammino terapeutico di 6 ex detenuti lungo la via Francigena del Sud: 900 km da Roma a Santa Maria di Leuca, percorsi insieme a due accompagnatori e alla troupe incaricata delle riprese.

Il documentario, intitolato “Boez - andiamo via”, racconta parte di quei cinquanta giorni di cammino, mostrando come l'esperienza concreta della fatica, della scomodità e dell'estraneità possa trasformarsi in un’occasione per riflettere sui propri limiti e sulla capacità/incapacità di costruire rapporti, mentre la dimensione della progressione lungo una strada presta il fianco ad essere rappresentata simbolicamente come la pianificazione e il raggiungimento di obiettivi di crescita personale.

Le stesse figure dei due accompagnatori mi sembrano simbolizzare delle funzioni necessarie al percorso del gruppo.

Marco incarna in certa misura la dimensione sociale del viaggio: spiega le regole, ricorda i limiti, si concentra sugli aspetti comunitari e interpersonali del gruppo. Ilaria svolge una funzione di integrazione degli aspetti intrapsichici e dell'esplorazione dei vissuti e delle emozioni. Il rapporto tra le due guide è quello di necessaria - direi fisiologica – compresenza poiché funzionano, ciascuno, da rappresentanti delle forze che rendono possibile il rapporto con l'altro: la dimensione individuale e quella collettiva. Nel momento in cui uno dei due si allontana (Ilaria è costretta a lasciare il gruppo per qualche giorno), la funzione normativa rappresentata da Marco non riesce a tenere insieme i pezzi di un gruppo composto da persone con tendenze antisociali troppo marcate. La sua sfuriata, e la conseguente estromissione di Omar dal viaggio, sembra rappresentare la reazione finale della società di fronte all'individuo antisociale che ripetutamente ne rifiuta le regole.

D’altra parte la tendenza antisociale di cui parliamo è testimoniata, inizialmente, anche dalla forma del racconto che i protagonisti fanno della esperienza stessa del cammino: l’uso insistente del pronome “io” improntato a un individualismo totalizzante, un "io" che vuole o non vuole, che resta o abbandona il viaggio, predice azioni e organizza reazioni, caratterizza individui che sembrano muoversi in uno spazio di assoluta solitudine e sradicamento, e finisce col produrre una narrazione della propria esperienza di vita che sembra priva della consapevolezza di una dimensione comunitaria.

Questo accade anche nei racconti che i ragazzi fanno della loro vita da criminali: storie prive, già nella loro mente e poi nella scelta delle parole, di una collocazione all'interno di rapporti e di una costruzione storicizzata capace di dargli senso: Francesco afferma di essere solo anche quando cammina in mezzo alla gente per le strade del suo paese natale, Omar reclama di essere sempre stato ignorato da tutti, ed essere rimasto completamente solo una volta entrato in carcere.

Seguendo con interesse il documentario in televisione mi sono domandata se e quanto sguardi come questo possano avere impatto sulla politica che concerne la detenzione, ma anche quale possa essere in contesti simili il ruolo della psicologia, talvolta (o spesso) in difficoltà nel misurarsi con la necessità di adottare impostazioni terapeutiche diverse da quella canonica.

Il supervisore di questo progetto, Tito Baldini, è uno psicanalista romano che opera da anni con quelli che lui stesso indica come “ragazzi al limite” e ne offre una emozionata descrizione in un suo testo: “Essere ragazzi al limite è come vivere stabilmente in una terra di frontiera. Una zona di confine dove non si sente dolore e dove il tempo, lo spazio e i legami non hanno significato”. Il suo operato, come quello di molti altri, rappresenta, a mio avviso, uno spiraglio di apertura nel mondo della psicanalisi, una testimonianza di come si possa lasciare le stanze degli studi nei centri storici, i divanetti e le poltrone per dedicarsi ad un’utenza che altrimenti non si potrebbe mai raggiungere, ricordando come il lavoro sulla dimensione simbolica sia possibile a prescindere dal setting e come anche la sbarra di un passaggio a livello o della carne di maiale possano diventare una via per l’esplorazione dell’inconscio.

 

Crediti e bibliografia

Foto: Ilaria D'Apollonio e Marco Saverio Loperfido in una scena del documentario

Teoria: T. Baldini, Ragazzi al limite, Seminari per conoscerli ed aiutarli, 2011, Franco Angeli

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