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Bisogni Educativi Speciali, che farci?

I bisogni educativi speciali (BES, come acronimo) trovano come loro definizione ufficiale quella fornita dall'ICF - International Classification of Fuctioning ovvero "qualsiasi difficoltà evolutiva di funzionamento, permanente o transitoria, in ambito educativo o di apprendimento, dovuta all'interazione tra vari fattori di salute e necessita di educazione speciale individualizzata".

La classificazione in questione nasce alla fine degli anni '70 nel Regno Unito, ma approda in Italia, in modo ufficiale, nel 2012 con una direttiva ministeriale. A quel punto, intorno alla questione BES, nascono una serie di altre sigle: DSA, disturbi specifici dell'apprendimento, ADHD, disturbo dell'iperattività e deficit di attenzione, PDP, piano educativo personalizzato e altre diagnosi come dislessia, disgrafia, discalculia.

Sono state formulate e vengono fornite alle famiglie, alle ASL e alle scuole le linee guida ministeriali, vengono formati in questa direzione insegnanti di sostegno e assistenti (OEPAC, AEC), eppure il vissuto più frequente per le famiglie è quello di sentirsi sole e confuse, alle volte in lotta contro un sistema ostile.


Penso che possa essere il caso anche di mettere in discussione queste categorie, o meglio, credo sia necessario riconoscere queste diagnosi e la loro conseguente organizzazione in ambito sanitario e scolastico, come delle categorie con cui viene letto un problema ben più complesso.

Le diagnosi e le definizioni connesse nascono dal bisogno di avere risposte certe e rassicuranti quando ci si trova di fronte problemi i cui contorni e confini non lo sono affatto, e definire procedure standard di intervento è rassicurante, gestibile e relativamente economico. Troppo spesso vedo accadere che i professionisti e le famiglie si convincano che la diagnosi descriva e definisca la Realtà (con la R maiuscola), piuttosto che esserne una sua interpretazione, e soprattutto una tra le molte possibili.

Nella nostra cultura ci affidiamo con molta facilità al modello medico, perchè deriviamo da una formazione positivista, e siamo abituati a pensare con un certo schema mentale, e, quindi, ci aiuta pensare che quel bambino abbia una malattia, per quella malattia esista un professionista specifico, il quale conosce la terapia idonea per condurre il ragazzino alla condizione di normalità.


Ma esiste un altro modello di intervento che si svincoli dalla diagnosi funzionale ed accolga l'unicità del soggetto?

Ricordiamoci di un’acquisizione indiscutibile: il pensare e l’apprendere non possono essere considerate delle funzioni autonome, disarticolate dal loro legame profondo con lo sviluppo emotivo del bambino e, in quest’ottica, la costruzione di uno spazio interno, di un apparato per pensare i pensieri, non è affatto scontata.

Pensiamo a che emozioni provano i bambini riguardo la loro idea di diventare grandi, e quindi di apprendere, di confrontarsi e competere con i coetanei, di passare del tempo lontani dalla famiglia, oppure chiediamoci all'interno della famiglia come venga visto l'apprendimento e chiediamoci se le radici dei BES siano neurologiche oppure sociali ed affettive.

A livello evolutivo, la mente si esprime prima nel corpo, con le sue azioni, e solo in un secondo momento nel pensiero, con le parole, questo significa che i sintomi che portano alla diagnosi, prima di essere problemi, sono modi di comunicare. Cosa ce ne facciamo di questi preziosi messaggeri? Ridotti ad essere ostacoli, malattie, handicap e impedimenti ben poco, ma se diventassero occasione di conoscenza e scambio di esperienze l'uno con l'altro sviluppando empatia, capacità di ascolto, riflessione e creatività?

 

Crediti e bibliografia


Filmato : L'Arome secco sè, Lorenzo Baglioni, 2019, Video


Foto: Pixabay, Immagine senza titolo


Teoria: Laboratorio emozionale per DSA, psicologia a Roma, Colleferro, Frosinone

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