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Lettera al mio psicanalista

Si sa: anche gli psicoterapeuti hanno uno psicoterapeuta ed io, per quasi otto anni, ho condotto la mia analisi personale.

Ho in mente un’immagine che, sebbene legata ad un periodo specifico, mi torna in mente spesso per poter descrivere quell'esperienza.

Io cado giù da un grattacielo, è un cadere che sembra quasi un volo, come se quel precipitare fosse la cosa più naturale che ci sia e ad un certo punto, ogni volta da una finestra di un piano diverso del grattacielo, si sporge una mano che mi riacchiappa per la collottola, mi tira dentro dalla finestra e mi mette in piedi. Ha un’espressione severa e spazientita, guarda e scruta nei miei occhi come se si potesse arrivare profondissimamente. Ed ogni volta che accade, intendo ogni volta che volo giù e poi la mano mi trascina e rimette in piedi, i miei piedi sono più stabili, la mia spina dorsale più robusta, la mia testa resiste meglio in posizione verticale.

Oramai da tanto tempo ho imparato a non lanciarmi più e guardo a quella fantasia con l’occhio adulto e cinico che mi suggerisce quanto sia idealizzato questo salvatore, quanto sia poco salutare far dipendere la propria stabilità da un altro, quanto non ne abbia più bisogno, quanto, con tutta probabilità, al mio psicanalista non piaccia per niente essere immaginato così. Eppure la conservo, non tanto perche parli di lui ma perché parla di me.

Da qualche tempo ho aperto uno studio di psicologia e, da qualche tempo, siedo dall’altra parte dei vari grattacieli che chi viene in studio mi propone e mi chiedo se anche io sono così significativa per loro, se sono capace di guardare tanto a fondo. Mi tornano in mente le parole di una collega durante un seminario: “Una cosa che ho capito è che non si è mai totalmente incompetenti e non si finisce mai di imparare”. Si sta in un mezzo, a tratti fastidioso, in cui l’unica cosa valida è fare della propria incompetenza un metodo di lavoro. Sapersi chiedere cosa si sta capendo di quello che ci racconta il cliente, e magari chiederlo anche a lui. Stare nel mezzo significa demolire il supereroe, almeno non crederci quando persino il proprio cliente è assolutamente certo della nostra infallibilità come terapeuti e come farlo tenendo a mente, sempre, il suo bisogno di accudimento? Usando l'ironia, è la mia risposta.

Oggi credo di poter condividere un’incompetenza, tra le tante, con i miei clienti: quella a vivere. L’incompetenza di vivere è quella che ci fa sentire falliti, inutili, irrisolti. Piuttosto che diagnosticarla, analizzarla, scavarla, vergognarsene… ho capito che posso riderla affettuosamente, e condividerla, perché non è una colpa.

La nostra società diagnostica le incompetenze: l’ADHD, i BES, le dipendenze e quelli che diagnosticano le incompetenze degli altri non si mettono mai dal lato degli incompetenti, forse negano di sentircisi o credono che questo non riguardi il rapporto con i loro utenti.

Dicevamo che l’ironia è l’unico modo per condividere incompetenza e se lo si fa mentre si lavora come psicologi bisogna non avere paura di spogliarsi della veste da supereroe, e bisogna che il cliente dall’altra parte non abbia paura di pensare al proprio terapeuta come a qualcuno di diverso da un supereroe.. E penso sia faticoso da tutti e due i lati.


 

Crediti e bibliografia

Foto: Lighthouse, Pixabay

Video: Intervista a Giovanni Jervis al liceo Seneca di Roma, video


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