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Psicologia dell'emergenza e della relazione

Sono passati due anni e mezzo dal terremoto che ha colpito il centro Italia ed oggi provo ad analizzare un aspetto che ruota intorno alle emergenze: quello della funzione psicologica legata ad esse, attraverso, anche, l'esperienza diretta di una collega e volontaria della Croce Rossa Italiana.

Poche ore dopo una calamità, un attentato, ed in generale in seguito a qualsiasi situazione in cui ragionevolmente si presume che qualcuno soffra, un gran numero di psicologi accorrono sul luogo.

A volte questo accade con una rapidità tale da non lasciare spazio al pensiero, necessario per riflettere sulla propria funzione in quel momento e sulle potenzialità della psicologia stessa durante l'emergenza.

All'interno di una psicologia che percepisce se stessa come terapia della relazione, e non dell'individuo, non trovano spazio le diagnosi di disturbo post traumatico da stress e i consigli cognitivi comportamentali. Dunque quale possibilità?


Prestare attenzione alla relazione, quella che in psicanalisi definiremmo come Transfert, significa, prima di tutto, accogliere e contenere una emotività dilagante e spaventosa.

Chi va a portare soccorso si ritrova sommerso da un senso di impotenza enorme, si presta a diventare cassa di risonanza del dolore delle vittime e dell'angoscia delle persone affettivamente vicine a loro.

Non è facile rapportarsi ad una emozionalità così coinvolgente che immediatamente trasmette la concretezza dell'eventualità che possa accadere anche a noi, e il modo con cui spesso si reagisce è quello dell'allontanamento dalle proprie emozioni.

Per gli operatori l'agire e il mettere in atto comportamenti chiamati dall'urgenza e dal momento protegge dal fare i conti con cosa sta accadendo a livello emotivo.


Le azioni sostituiscono i sentimenti e si cerca di tenere sotto controllo anche il dilagare delle emozioni altrui.


E' all'interno di questa dinamica che vengono chiamati ad intervenire gli psicologi come coloro in grado di tenere a bada il dolore.

Se si collude con questa domanda, se si opera per tenere sotto controllo l'emotività delle vittime attraverso diagnosi e somministrazioni, non ci sarà per l'utente lo spazio per esplorare le proprie emozioni in relazione al contesto, per condividere il dolore ed il lutto, per esprimere dei bisogni come quello di raccontare la propria storia e ricostruire quella di chi non ce l'ha fatta, il bisogno di urlare ed il diritto ad essere accolti e contenuti da una persona in grado di sospendere l'azione ed essere la cassa di risonanza di quel malessere.

Una cassa di risonanza la cui funzione è quella di restituire una lettura consapevole perché il dolore possa affiorare ed essere conosciuto a fondo, e non attraverso l'adempimento di step venduti come risolutivi del malessere e che inevitabilmente falliscono, lasciando l'impressione alla vittima di non essere stata capace.


Bisogna accettare la finitezza delle risorse a disposizione della psicologia e capire che in alcune circostanze la funzione è quella di permettere, facilitare e supportare il contatto con le emozioni, e che solo successivamente e lontani dall'emergenza, si potrà lavorare sulla ricostruzione di una identità a partire dal disastro subito.

 

Crediti e bibliografia


Foto: Geralt, Immagine senza titolo


Video: Dalla mensa allo psicologo, l'impegno dela CRI ad Amatrice, Adnkronos, 10 settembre 2016


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